Dopo aver pubblicato l’ultimo post, sulle relazioni tra compagni di allenamento, ho cercato qualche confronto a lezione, per sincerarmi che tutti avessero colto il significato.
Uno dei commenti è stato “sono un po’ confusa riguardo l’appellativo da usare”. Si riferiva a me. Se avessi risposto di getto avrei detto: “veramente anch’io!”.
Avendo una particolare tendenza a pensare prima di parlare, non è ciò che ho risposto, quindi riporto qui quello che ho detto, ampliandolo per aiutare eventuali altri confusi al riguardo. Come mi dovete chiamare? Sabrina? Maestro? Maestra? Sensei?
La risposta è che ogni persona deve sentirsi libera di chiamarmi come si sente, perché non abbiamo tutti la stessa storia, le stesse abitudini, la stessa provenienza, né lo stesso rapporto. Ciò cammina parallelamente con il rispetto.
Una parola può racchiudere in sé tantissimo rispetto; basti pensare a cosa fa scaturire la pronuncia della parola Maestro, che reca in sé la storia di tutte le volte che abbiamo sentito pronunciare questa parola, rivolta a persone importanti, dotate di maestria, appunto. Porta con sé quindi subito il riconoscimento di una certa qualità, e con sé anche una certa distanza. Ma la stessa parola, se non è “sentita”, può essere vuota.
Ad una recente occasione, ho sentito tantissimo rispetto da persone che avevano seguito la mia lezione, che quando sono andate via mi hanno salutato con un sincero “ciao Sabrina”. Nella stessa occasione ho sentito qualcuno chiamare qualcun altro “grande maestro!” ma è arrivato un vuoto che mi ha perforato il timpano.
Io ho iniziato i miei corsi facendomi chiamare Sabrina e spiegando ad inizio corso che per me andava bene essere chiamata per nome, perché semplicemente è così che ho sempre chiamato i miei maestri, come si usava nel nostro Dojo. Ovviamente se parlavo con terze persone li definivo maestri, perché è questo che erano per me, e ciò era sufficiente a sentirne l’importanza, il rispetto e a farmi stare a distanza. Quando ho fatto l’esame per la qualifica di “Maestro/a”, un passaggio che a livello federativo si impone, il dubbio si è affacciato, anche perché durante uno dei corsi, il relatore ha tenuto a ribadire quanto sia importante per un allievo chiamarci maestri. Ma nonostante la veridicità di questo elemento, non ho potuto cambiare nulla, se non il titolo nella mia firma. Perché non l’ho sentito naturale. Se qualcosa cambierà, avverrà nel tempo e con naturalezza.
Capita che, in trasferta, allievi di altri dojo mi incontrino e mi chiamino Maestro, o Maestra, o Sensei, come fa anche qualche genitore, perché mi hanno identificato così. Se viene naturale, è giusto, va bene. Certamente può risultare paradossale se ci sono anche i miei veri allievi, che magari non lo fanno perché io non li ho abituati a farlo, e subito dopo chiamano magari un altro maestro, per educazione, ovviamente, perché io li ho abituati a farlo.
Insomma, la confusione c’è, eccome! Ma non c’è quando negli occhi incontri il rispetto, a prescindere da ciò che la voce ha appena espresso. Insomma, l’importante è che ci sia sintonia tra i pensieri e le parole, e che ognuno scelga quelle giuste per sé, che possano esprimere ciò che sente.
E che ci sia rispetto sincero, questo è ciò che conta davvero.
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